Dal primo giugno 2004, data del suo insediamento a Torino, il manager italo-canadese è riuscito a demolire pezzo dopo pezzo il sistema delle relazioni industriali italiane, riportandolo a una dimensione antica, quasi "vallettiana".
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Ha svuotato di contenuti il contratto nazionale di lavoro, sostituendolo con "accordi" (che sarebbe più onesto definire "imposizioni") a misura d'azienda; ha ricattato gli operai di Pomigliano e Mirafiori, costringendoli a sottoscrivere un odioso peggioramento delle loro condizioni di vita; ha chiuso fuori dalle fabbriche l'unico sindacato che si opponeva ai suoi piani - la Fiom - imponendo un illegale divieto di sciopero e una flessibilità da lui stesso definita "bestiale". Infine, si è sbarazzato di ogni residuo vincolo normativo portando il gruppo Fiat fuori da Confindustria. Di questo e molto altro è stato capace Sergio Marchionne, nell'Italia della grande crisi economica. Tuttavia, Marchionne non ha fatto altro che il lavoro per il quale è lautamente pagato. Ovvero "generare profitto, unico fine dell'impresa", come diceva Cesare Romiti. È il sindacato, piuttosto, ad aver tradito la sua missione naturale, ad aver smesso di combattere al fianco dei lavoratori. Sergio Marchionne conduce la "lotta" al fianco della propria "classe", che è quella dei padroni. E lo fa con ottimi risultati. Ai lavoratori, in ultima istanza, la scelta di combattere per se stessi e per la propria dignità. Con o senza il sindacato.